il commento di P. Mereghetti.
Grindhouse - A prova di morte Il delirio «estremo» di Tarantino Donne e scontri in un vicolo cieco.
Chiacchiere e scontri. Chi si immagina complicate avventure di vendicatrici con la katana o di killer filosofeggianti resterà deluso dal nuovo Tarantino ma lo stesso succederà per chi ha etichettato troppo in fretta il regista americano nella categoria «ragazzacci strafottenti ». Grindhouse - A prova di morte è probabilmente molto meno di quello che si aspettano i fan di Tarantino, ma è anche molto di più (in quanto a radicalità registica e delirio narrativo) di quello che i suoi detrattori sono disposti a concedergli. Il film che esce oggi in Italia è la versione lunga (127 minuti invece dei 90 originari), già presentata al Festival di Cannes, della seconda parte di un film a due firme uscito negli Stati Uniti col titolo Grindhouse, termine gergale per indicare quei cinemini di terza o quarta visione dove l’esercente programmava due film al prezzo di uno. L’originale è composto da un film diretto da Robert Rodriguez (Planet Terror), da uno diretto da Quentin Tarantino (Death Proof) e da una serie di falsi «prossimamente » diretti dallo stesso Rodriguez, da Eli Roth, Edgard Wright e Rob Zombie (alias Robert Cummings). Proprio come i doppi spettacoli degli anni Sessanta.
Diviso in due parti speculari, Grindhouse - A prova di morte racconta gli incontri che due gruppi di ragazze fanno in tempi successivi con Stuntman Mike (Kurt Russell), una controfigura animata (sembrerebbe) da forte spirito misogino che si diverte a provocare e a coinvolgere in catastrofici incidenti le ragazze che girano da sole. Il suo primo gruppo di vittime è composto dalle amiche «Jingle» Julia (Sydney Tamila Poitier), Arlene (Vanessa Ferlito) e Shanna (Jordan Ladd), decise a passare qualche giorno da sole in una casa di campagna: in un bar la loro strada si incrocerà con quella di Mike e con la sfortunata autostoppista Pam (Rose McGowan). Lasciamo allo spettatore la sorpresa di scoprire con che conseguenze si concluderà lo scontro frontale tra le due auto, quella delle tre amiche e quella di Mike con a bordo Pam. Il secondo gruppo di vittime è composto da Abernathy (Rosario Dawson), Zoe (Zoe Bell, nella realtà una vera controfigura, che aveva sostituito Uma Thurman in alcune scene di Kill Bill) e Kim (Tracie Thoms), incrociate da Stuntman Mike mentre provano lungo delle strade di campagna una Dodge Challenger bianca del 1970, dopo aver lasciato la loro formosa amica Lee (Mary Elizabeth Winstead) come «pegno» al proprietario della macchina. E anche qui evitiamo di rivelare allo spettatore come finirà l’incontro/scontro tra la macchina guidata dalle donne e quella guidata dall’uomo.
A essere cattivi, potremmo aggiungere che l’esito delle due «sfide» è l’unica vera sorpresa del film, che inizia con lunghe ed estenuanti chiacchiere tra donne e si conclude con sgommate e inseguimenti su strade deserte. Tanto per fare un esempio ecco un estratto dal dialogo (copio dal volume Bompiani con la sceneggiatura del film di Tarantino, pag. 76). Parla Jungle Julia, «la diskjockey più popolare della radio più cool di Austin, Texas», rispondendo all’amica che dice di trovarla sempre sul divano davanti alla tv: «Ehi, è una giornata dura quella di una dj dell’ora di punta. Smetto di lavorare alle dieci di mattina, arrivo a casa alle dieci e mezza, alle undici sono rannicchiata comoda comoda sul divano, im pigiama, a farmi una canna. Alle undici guardo "I love Lucy". L’Andy Griffith Show, che mio padre diceva sempre: Don Knotts era il bianco più divertente che sia mai vissuto — lo guardo alle undici e mezza. Alle dodici guardo il doppio episodio del Fresh Prince di Bel Air, all’una quelli di Moesha, alle due guardo Sponge Bob Squadre Pants, alle due e mezza guardo Pinky and the Brain alle tre il doppio episodio di Sister Sister e alle quattro guardo Tyra. Poi mangio una bella tazzona di cereali, mi rimetto in sesto e continuo». Dialoghi così ne potremmo citare moltissimi e tutti ripresi nel più tradizionale dei modi: macchina fissa più o meno frontale piazzata su chi parla, che neanche Bergman saprebbe essere più antispettacolare.
Si potrebbe archiviare tutto come un’operazione inutilmente provocatoria, l’ennesimo scherzo di un regista irrimediabilmente goliardico. Eppure Grindhouse - A prova di morte lascia alla fine nello spettatore la sensazione di un film talmente squilibrato, talmente radicale nelle sue scelte narrative ed estetiche da far nascere più di un interrogativo. Non è più questione di bulimia cinefila: anche se nei dialoghi si scherza su Telephon e Punto zero, anche se nei titoli di coda si sprecano le citazioni per Dario Argento, Lenzi e di Leo, il gioco di rimandi ha perso qualsiasi valore ludico per diventare una specie di canovaccio stiracchiato e irriconoscibile. E non è nemmeno questione di rimpianto o di «ricalco» del cinema popolare, tanto il film dimentica ogni furbizia narrativa per «mostrarsi» sullo schermo in tutta la sua prolissità. Allora viene il dubbio che il percorso anticlassico e antihollywoodiano di Tarantino abbia finito per portarlo in una specie di vicolo cieco, dove ogni volta i film sono sempre meno avvincenti e meno sorprendenti ma sempre più estremi e radicali. Come se il vuoto di prospettive che il cinema di oggi sconta sulla sua pelle sia diventato una specie di «buco nero» cinematografico in cui Tarantino finisce per lasciarsi risucchiare. Senza una visione critica che gli faccia mettere in evidenza i limiti di questa operazione (c’è molta meno ironia del prevedibile) ma anche con molta più empatia e rischio (non a caso il film è stato un flop in America) di quanto un «furbo» regista potrebbe mettere in gioco.
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