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"Bambola": un film, un perché.

Ultimo Aggiornamento: 19/05/2005 01:19
11/05/2005 13:35
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Re: apologia

Scritto da: ActiasLuna 05/05/2005 22.59
Detrattori del film, che vi rifiutate a priori di assistere ad un’eventuale proiezione, ecco la mia arringa. A mio parere, il filone del film voleva essere comico, ma vi ha rinunciato in fase di montaggio ed, infatti, il taglio nelle sequenze iniziali è veramente comico, a partire dall’incipit: “Mi chiamo Mina, ma tutti mi chiamano Bambola”. Mi sembra, ovverosia, che vi sia un mutamento di direzione troppo brusco tra l’incipit di sapore quasi western ed il termine, in cui la protagonista abbandona l’insopportabile status quo, per cambiare il suo destino.
L’obiettivo devia volontariamente verso il grottesco fin dalla presentazione iniziale della mamma della protagonista, l’ex-gloriosa Anitona, mentre con la mano destra impugna una mannaia e macella capretti per il suo squallido ristorante e contemporaneamente, con la sinistra, beve e fuma. Per puro hobby, poi, la madre di Bambola spara alle bottiglie poste in fila sul tavolaccio: diletti compagni, non vi sembra un chiaro paradigma delle capacità reticolari che tutte le mamme hanno di fare contemporaneamente più cose e di farle tutte bene? Ora, -io credo per esigenze di budget, probabilmente,- purtroppo, quello della gloriosa Anitona è solo un cameo, altrimenti, se sufficientemente sviluppato, avrebbe potuto condurre l’introspezione della protagonista ad una profondità maggiore. Non è forse sempre colpa delle genitrici, se le generate hanno problemi con la propria identità? Ergo, non sarà forse per questo motivo che la sensuale Mina ha un alter-ego che si chiama Bambola? E non sarà anche per questo che predilige la compagnia delle caprette, come una Heidi attualizzata e contestualizzata? Il messaggio è fassbinderiano: i guai di una persona nascono dalla famiglia e concedetemi l’apologia, sebbene la famiglia di Bambola non appartenga alla borghesia mitteleuropea dell’età del boom economico.
Dopo la morte della madre, al fine di elaborare il lutto, Bambola si fa accompagnare dal fratello, a realizzare uno dei sogni della sua vita, ossia una gita presso un acqua-parco di periferia. Dovreste vedere con quanta leggiadria la Marini precipita dall’acquascivolo con il suo microscopico bikini nero! Signori miei, questa è comicità, non quella dei Vanzina! E la lunga sequenza dell’inseguimento tra Bambola ed il suo amante assatanato? La Marini, con vera e compenetrata angoscia, monta sull’Apetta del fratello, accelerando a tutta birra, ma commette l’errore di guardare più indietro che avanti, per cui va a cappottarsi nella cunetta. Rispettabili sodali, non vi sembra questa comicità verace?
Purtroppo o per fortuna, il disastro che guasta il film di Bigas Luna all’occhio di critici e spettatori non è l’ossessione voyeuristica, che insiste sulle scene di mero sesso al solo fine di evidenziare il corpo burroso della Marini (più bombola che bambola), bensì la mancata introspezione dei motivi che spingono il personaggio principale a persistere nel suo comportamento ostinatamente sensuale e sottomesso nei confronti del vigorosissimo ex-detenuto Furio. Di fronte al cadavere dell’uomo dice: “Era un porco, ma io l’amavo”. Bambola prova dei sentimenti, solo che la regia non le permette di spiegarli. Bambola non è il tipico personaggio della filmografia soft-core, come la fredda Elizabeth di Nove settimane e mezzo o come la calcolatrice Catherine di Basic instinct, ma sembra che l’unica spinta all’azione sia, in realtà, una coazione. Bambola non può fare a meno di sottomettersi ad ogni genere di violenza, perché, in verità, lo desidera; Bigas Luna crede così di farsi portavoce della paura ancestrale (nonché desiderio recondito e perverso) di ogni donna: essere posseduta sessualmente, scindendo una volta per tutte il quid fisiologico da quello psicologico, liberando la ninfomania e l’essenza masochistica represse dalle convenzioni sociali e dai sensi di colpa intrinseci. Mentre le donnine di Tinto Brass guardano al sesso con allegria, la dicotomia del piacere femminile, secondo la visione del regista spagnolo, è tutta nell’accettazione del dolore: repulsione-attrazione. Il moto primario di fronte a tale messaggio è la ribellione, ma poi ci si rende conto anche grazie alla recitazione della Marini, che è vero: che, in fondo in fondo, è il corpo (e l’uso che del corpo si fa) a causare e scatenare nelle voglie del partner il senso del possesso, non certo la motivazione sentimentale. Il desiderio sessuale è proporzionale all’attrazione della fisicità.
Il piacere per il piacere, senza sentimenti e senza futuro, è un tema che merita un’approfondita disamina, gentili creature. Non lasciatevi scappare l’opportunità di pensare a proposito. Non lasciate chiusa una porta che potrebbe costituire un varco verso la comprensione di voi stessi e delle vostre leggi erotiche.
Affittate il film o, se possibile, gustatevelo su grande schermo. O, se l’avete già visto, rivedetelo con spirito critico. Non si tratta di ragionare sul nulla, come fanno i politici: guardate solo quante argomentazioni sono riuscita a tirare fuori io, nella mia sconfinata ignoranza di indegna studiosa di storia del caffè corretto...[SM=g27960]
Avv.ssa Luna[SM=g27961]



e allora direbbero certi miei conoscenti? [SM=g27980]
scherzo ottima arringa pro bambola...ma alla fine poco cambia, a mio avviso. prodotto basso, scarso.
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