la recensione......
di Giuseppe Faraci:
Siamo nel lontano 1931 quando il maestro Fritz Lang, esponente della scuola espressionista tedesca (assieme a Wiene e Murnau) inscena quello che molti considerano il suo capolavoro, antesignano di un genere destinato a non passare mai di moda, quello sui serial killer. M sta per “Moerder”, ovvero assassino, ma anche per “Mostro”, nel titolo italiano. Il riferimento a Dusseldorf è, invece, uno dei tanti misteri che avvolgono il passaggio, spesso accompagnato da relativa storpiatura, dai titoli originali a quelli, talvolta davvero imbarazzanti, delle edizioni italiane, dato che per tutti i 117 minuti di durata del film non si fa un solo accenno a Dusseldorf, così come a nessun’altra città (quello che è dato conoscere è che si tratta di una città tedesca). Tornando alla pellicola, Lang si concede una pressochè totale libertà nelle inquadrature, che attraverso un uso assoluto dello spazio sono dal basso, dall'alto e trasversali. Il regista riesce con grande sagacia tecnica a creare ambienti e atmosfere cupe e schizofreniche, grazie a riuscitissime trovate, come l’ombra del mostro proiettata sul manifesto o il motivetto ossessivamente fischiettato.
Partendo dal presupposto che Lang fu un maestro del muto, e che questo fu il suo primo incontro col parlato, si giunge al motivo per cui questo film è considerato tra i più importanti della storia, ovvero la straordinaria capacità di sfruttare la forza dirompente delle immagini. Lang più che narrare suggerisce per allusioni e visioni evocative, rendendo terribilmente tacito il rapporto premessa/conseguenza. Un esempio su tutti è la tragica successione sedia vuota / tromba delle scale deserta / palloncino attaccato ai fili elettrici, che suggerisce (appunto, non mostra) l’avvenuto omicidio della piccola. Passando agli spunti tematici, un argomento centrale è la netta opposizione tra giustizia privata e giustizia ufficiale, evidentissima nel montaggio alternato tra la riunione dei malviventi e quella dei vertici di polizia. Questa materia richiede una disamina che conduce alla matrice espressionista (e quindi fortemente individualista) di Lang, il quale evidentemente ripudia le organizzazioni collettive, tanto è vero che sarà un semplice venditore di palloncini ad incastrare l’assassino, in barba a polizia e bande di malviventi. Del resto l’irrazionalità della folla emerge anche nella scena del quasi linciaggio ai danni di un innocente incolpato ingiustamente di essere il mostro (siamo nel 1931 e le dottrine freudiane e non solo sulla folla e le isterie collettive non potevano non esercitare una forte influenza sulle arti). In ultima analisi il trattamento riservato all’assassino è un esempio di “umanizzazione” del mostro (interpretato e completamente fatto suo da un eccezionale Peter Lorre dagli occhi sgranati), considerato inumano per eccellenza. Nella prima parte non lo si vede mai, e lo si sente parlare ancora meno. Se ne ascolta il fischiettio con cui si avvicina alle sue piccole vittime, se ne scrutano i contorni, se ne intuisce la sagoma, il profilo, e questo rende la sua figura come avvolta da un velo di arcano che lo rende terrificante, proprio perché senza volto. Nella seconda parte, nella scena del processo popolare, il mostro svela il suo volto, parla, anzi urla, piange e si dispera, commuove quasi il suo voler trovare giustificazioni plausibili ai suoi gesti. E tutto questo gli conferisce qualcosa di incredibilmente umano. Straordinario prodotto cinematografico, tra i manifesti del cinema europeo d’avanguardia, perfetta sintesi di suono e immagini, forma e contenuto.